La discussione sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori diventa ancor più rovente e come sempre la profondità delle affermazioni fatte in proposito, a cominciare dalle battute di chi dovrebbe invece dare un esempio di sobrietà, è direttamente proporzionale al gradiente di concetto presente nel pensiero, come insegna il vecchissimo Hegel, lavoratore dell’intelletto a tempo indeterminato in una vetusta università. Siamo passati dalle barzellette pecorecce del governo Berlusconi alle ironiche battute del neo governo dei tecnici, che poco fanno ridire vista la drammaticità della vita quotidiana.
Consentitemi di far una osservazione; la legge del 20 maggio 1970 aveva questo titolo: “Norme sulla tutela e sulla libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Uno dei più grandi giuristi del lavoro, Gino Giugni, era l’ispiratore della legge. Che fu promulgata non senza conflitti all’interno dello stesso movimento sindacale. Era l'Italia che si era ripresa e benchè fossi bambino, si respirava una voglia di libertà e di fare palpabile in ogni luogo, si aspirava ad una giustizia sociale ed a un benessere diffuso rimuovendo i conflitti sociali con la partecipazione delle masse lavoratrici. Tra i tanti distinguo anche se poi si schierò a favore della legge,disse in proposito Bruno Storti, segretario generale della Cisl, : “Il nostro Statuto è il contratto”, a significare che anche tra il sindacato a cui si affiancava Gino Giugni le perplessità nei confronti di una legge che regolasse i diritti e i doveri sindacali erano forti. ( Possiamo dire che lo stesso Gino Giugni introdusse elementi ispirati a Perlman teorico noto, del sindacalismo nordamericano.)
Determinante fu il cosidetto "autunno caldo" e le lotte di quegli anni, talvolta forse troppo demagociche, ma bene ricordare che il Paese stava affrontando una rivoluzione economica, di primo piano, dove l'industrializzazione stava avendo il primato su altri settori produttivi. Tuttavia resta la sostanza dell’articolo 18, che nacque in primo luogo, e qui ribadisco, per evitare per legge - di qui le perplessità - la discriminazione dei lavoratori attivisti sindacali, tanto della Cgil, quanto delle federazioni più combattive della Cisl, a partire dalla Fim. Del resto, non erano passati molti anni dal suicidio di alcuni lavoratori torinesi, i quali, dopo essere stati licenziati dalla Fiat perché avevano firmato per l’elezione dei seggi sindacali delle rappresentanze di categoria, s’erano tolti la vita dopo aver compiuto un atto che altro non era che eroico, nel clima di repressione e di discriminazione sociale e politica che la Fiat aveva imposto a Torino.
Il fatto che, in seguito, l’articolo 18 sia divenuto uno strumento di tutela del lavoratore tramite il ricorso alla magistratura del lavoro anche in caso di crisi aziendale, ossia per motivi eminentemente economici, costringendo al reintegro, lo si deve più all’applicazione ai fini del diritto in mano ai giudici che allo spirito della legge. Quando lo spirito della legge non lo si rispetta, esso, come citava bene Montesquieu (ispiratore dell'Illuminismo francese), si ribella generando effetti contro-intuitivi, come è accaduto in Italia. In ogni caso, le norme introdotte dell'Articolo 18 non sono esclusive in Italia: in Germania e in Francia, pur con distinguo diversi, la legge obbliga al risarcimento economico in caso di licenziamento illegittimo o al reintegro, purché una delle due parti non s’opponga.
Citiamo il tutto come premessa e cronaca della storia.
Il nuovo elemento dirompente che introduce il nuovo assetto relazioni sindacali parte datoriale è l’arrivo di Marchionne alla Fiat. Possiamo affermare che la sua ascesa e modo di relazionare abbia dato una svolta ai conflitti di classe , Marchione si pone in termini di imprenditore speculare del neocapitalismo e trova la contrapposizione fondamental-antagonistica dellaFiom.
Questo scenario ha innescato lo spettro della discriminazione: a Pomigliano non un iscritto alla Fiom è stato riassunto e questo non depone per la coesione sociale e il rispetto della dignità del lavoro, almeno per chi pensa, come me, che bisogna sempre essere dalla parte degli ultimi. Ma veniamo alla sostanza. Qual è l’asse d’eccellenza della nostra economia, anche, anzi, in primo luogo, secondo Mediobanca? Sono le 4500 imprese multinazionali tascabili che sono rivolte all’esportazione e che costituiscono la spina dorsale della nostra manifattura. Una vera e propria ricchezza per il paese che si differenzia rispetto agli altri paesi europei in primis Germania e Francia che hanno grandi imprese che rappresentano il 65% dell'economia nazionale, che qualora entrassero in crisi avrebebro ripercussioni drammatiche sulla loro economia. Possiamo dire che la framentazione delle nostre micro-aziende sia il miglior punto di forza della nostra economia.
Ebbene, sono tutte imprese che hanno più di 15 dipendenti .
Tuttavia secondo i nostri pensatori senza concetto ma con molta ideologia , esse sono soggette a una sorta di malattia: respingerebbero gli investimenti e l’innovazione dei capitali italiani e stranieri, mentre, invece, in realtà sono il plesso che più li attira. Quindi chi dice che l’articolo 18 è un disincentivo alla crescita dimensionale e agli investimenti dice il falso sapendo di mentire. Ma capita sempre più spesso di sentir cose consimili, in un mondo dove non c’è ministro che non lavori o abbia lavorato, in incognito o alla luce del sole, per il turbocapitalismo finanziario che ha provocato 250 milioni di disoccupati nell’area Ocse. Certo che chi non crede che esista il capitalismo, ma invece solo il mercato, non sarà d’accordo con questa affermazione. Mi dispiace, ma l’onere della prova spetta a chi ritiene che il mercato senza potere possa esistere.
Veniamo ora agli intenti o alle volizioni imprenditoriali: gli imprenditori non hanno nessuna voglia di licenziare i loro dipendenti e coloro che sono costretti a farlo per ragioni di sopravvivenza dell’impresa, nella stragrande maggioranza, entrano in una crisi di coscienza e di autostima terribile: abbiamo avuto dei suicidi drammatici. Chi pensa che il problema della crescita dell’impresa e della concordia sociale che dobbiamo perseguire in vista dell’impresa come comunità risieda nell’articolo 18 sbaglia di grosso.
I contratti a tempo determinato sono stati usati solo perché il capitalismo finanziario ha preso la prevalenza, abbattendo ogni ritegno e ogni senso di giustizia, beneficiando delle comode leggi che i teorico professori universitari e parlamentaristi hanno dispensato a loro favore in nome della flessibilità.
Del resto, di quelle leggi hanno approfittato solo le imprese più soggette ad alti tassi di mortalità e di nascita intermittente, nel settore dei servizi dequalificati e della stagionalità, dove gli imprenditori sono assai rari.
Le classi e i ceti sociali esistono e in tempi di crisi chi appartiene socialmente al popolo lavoratore, classe operaia o ceto impiegatizio che sia o classi medie declassate, oggi, nella sua unità di lavoro, non si ritiene, come non è, né protetto, né privilegiato, ma spessissimo è attraversata, la sua anima, dalla paura di perdere il posto di lavoro, di non poter allevare i figli, di non potersi sposare e di non poter mantenere i genitori anziani. Il problema, semmai, oggi, è quello di ridurre la precarietà in entrata eliminando i famigerati contratti atipici e simili che son giunti a essere di 46 tipi e sono stati sponsorizzati da senatori e intellettuali modernissimi di una “sinistra” che è passata in gran fretta dall’ammirazione per Mao a quella per il liberale storico di destra Malagodi, con una deriva liberista dispiegata e oltranzista che fa da specchio al fondamentalismo anarco-sindacalista.
I nostri sforzi devono essere indirizzati verso la creazione di un welfare globale, non basato solo sui principi del lavoro e dell'uomo inteso capofamigla, ma in un complesso sistema di economia sostenibile che rispetti tutti i fattori che la determinano siano umani ed ambientali.
In questo modo possiamo costruire una civiltà del lavoro e programmare percorsi di adeguamento alle nuove esigenze dei mercati del lavoro e dei mercati imperfetti , poichè per sua natura non possono essere perfetti in quanto sono frutto di negoziati, e vi sarà sempre una parte che cede rispetto ad altra. La persona lavoratrice non è ,e non deve essere considerata merce di scambio ,ma deve essere e rimanere una persona.
Non si deve mai dimenticarlo, e questo giustifica tanto il sindacato associativo quanto la comunità dell’economia morale, impresa cooperativa oppure impresa not for profit, che potrebbe diventare il nuovo orizzonte di un welfare non più statalistico, quanto, invece, comunitario e non assistenzialistico: fondato sui doveri (risparmio, sacrificio, altruismo, visione antropologica positiva della persona) prima che sui diritti dei lavoratori. Del resto molte imprese, agendo con il welfare aziendale, stanno già percorrendo questo percorso.
Un appunto a tutti coloro che nel nuovo mondo della precarietà inevitabile e della mobilità ,solo da pochi anni enfatizzata e desiderata, che tutti gli studi compiuti dagli storici dell'economia e del lavoro in tutto il mondo (tra cui cito Duccio Bigazzi, Yves Lequine, e David Montgomery ) dimostrano che in determinati periodi tra cui inizio Novecento la mobilità era altissima in tutte le categorie di lavoratori. Tranne ovviamente quelle categorie che definiamo impiego pubblico. Tra gli inamovibili nel vecchio continente ieri come oggi i baroni universitari o professori . Oggi troviamo in veste di tecnici nel Governo Monti quelle persone che hanno contribuito a quelle leggi pro capitalismo , ne hanno beneficiato in termini sociali, ma al contempo hanno minato la solidità di un sistema seppur imperfetto ( che comunque reggeva ), ed adesso ci vogliono dare la cura per guarirlo , Noi abbiamo il legittimo sospetto che la loro medicina sia peggio della malattia. La cosa migliore per la comunità è mandarli a casa il prima possibile ed iniziare a pensare un nuovo piano Marshal per l'Europa, libera dai conflitti nazionalisti e bancari , senza gli obblighi di pareggio di bilancio ed altri vincoli che frenano la ripresa produttiva. Il "New Deal" di Roosvelt ,nè il piano Marshall sarebe stato possibile con queste vincoli che abbiamo dato all'Europa comune , nè la stessa riunificazione della Germania sarebbe potuta avvenire , ricordiamolo alla Signora Merkel, che viene dalla DDR. Un altro modo e mondo è possibile, basta volerlo come sempre.
Stefano Orsi
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